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Un intervento sul primo paragrafo del capitolo IV di Differenza e Ripetizione (“Sintesi «ideale» della differenza”)

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Fulvio Carmagnola

Un intervento sul primo paragrafo del capitolo IV di Differenza e Ripetizione (“Sintesi «ideale» della differenza”)

 

  • Cerco di seguire lo stile del seminario procedendo a partire dal primo paragrafo (pp. 219-222) e seguendone la scansione, che a mio parere anticipa i temi dell’intero capitolo. Terrò presenti il secondo e il terzo punto indicati da Stefano Marchesoni: “drammatizzare” le Idee e “ripensamento deleuziano dello schematismo di Kant”
  • Le quattro pagine in questione parlano dello stato dell’Idea come problema, “i problemi sono le idee stesse” e la ragione è la facoltà di porre problemi. Deleuze ripete una frase di Kant, le idee sono “problemi senza soluzione” (dalla “Dialettica trascendentale” nella KRV, “Delle idee trascendentali”, tr. it. p 323)
  • Mi chiedo prima di tutto: perché questo titolo? “sintesi” “ideale”. La parola “sintesi” indica in Deleuze una produzione di differenza attraverso la riunione di momenti che non appartengono allo stesso concetto. La differenza unifica e l’idea riunisce in quanto differenza ovvero contiene in sé elementi differenziali, la cui formula sarà espressa più avanti dal grafismo t/z
  • “Ideale” fa il paio con “sensibile” del capitolo successivo. Nel campo dell’Idea, che è un campo virtuale (reale senza essere attuale) è la differenza stessa che deve operare sinteticamente. La differenza riunisce ciò che distingue e “le Idee contengono i loro momenti lacerati” (qui, p. 221).
  • Anticipo: si può pensare che quello che in DR e nella conversazione del 1967 è chiamato “drammatizzazione” sia l’elaborazione della nozione di “genesi” che appare già nel 1963
  • Ritengo importante allora prendere in considerazione altri due scritti: “L’idea di genesi nell’estetica kantiana” (1963) e “Sul metodo della drammatizzazione” (1967).

Le pagine 219-222 del quarto capitolo

In queste quattro pagine si trovano a mio avviso due temi fondamentali. Il primo tema è la ripresa della nozione kantiana di Idea che è il punto di partenza. Il secondo momento che affiora alla fine del paragrafo è una critica a Kant che si svolgerà lungo tutto il testo: in Kant manca ancora – nonostante la sua potente teoria dell’Idea – il momento della “genesi”, Kant si attiene ancora al “condizionamento”.

Forse sarebbe utile cominciare con una domanda magari banale, ma a mio avviso importante: perché a Deleuze, che si definisce lui stesso un filosofo classico, importa tanto la questione delle idee? Perché gli si ripresenta ancora una volta il problema – “platonico, leibniziano e kantiano” come lui stesso dichiara – del rapporto tra il sensibile e il non sensibile. Un problema che Platone aveva ereditato dalla tradizione pitagorica. I capitoli 4 e 5 di DR sono la doppia risposta a questo problema. C’è una “sintesi” che avviene sul piano dell’idea – il virtuale – e una sintesi che avviene in modo “asimmetrico” nel sensibile. Sul piano dell’Idea è la differenza che produce la sintesi e questa deve essere radicalmente diversa dal movimento hegeliano della contraddizione. Il nome deleuziano infatti è “vice-dizione”. Ma DR deve tenere presente che dopo Kant la scissione tra concetto (dell’intelletto) e idea (della ragione) è diventata una nuova base per ripensare il problema. Schema e simbolo – due entità che compaiono in questo capitolo – sembrano essere sulla base kantiana i due agenti del collegamento.
Prendo in considerazione ora i due temi che compaiono nel primo paragrafo del capitolo 4.

Primo tema: la ragione è le facoltà dei problemi, le idee sono problematiche. Un problema è “la costituzione di un campo sistematico unitario” che orienta la ricerca (Kant: focus imaginarius, orizzonte). L’espressione kantiana che le idee sono problemi senza soluzione è svolta così: le idee – piano virtuale – non sono soppresse nelle soluzioni (piano attuale).
“Problematico” per Deleuze (e per Kant) significa “indeterminato” ma anche “oggettivo” e in un certo modo inesauribile.

p. 221: ci sono tre affermazioni:

  1. l’indeterminato è una struttura oggettiva, ma il suo oggetto è fuori dell’esperienza, agisce come orizzonte o focus, serve a dare unità sistematica alla ricerca (che come Kant sottolineava, in ogni caso “va per la sua strada”). L’idea non determina la ricerca, la indirizza
  2. lo si può determinare ma solo indirettamente (a differenza del concetto) cioè per analogia. È la teoria del simbolo che Kant esporrà nella terza Critica. L’idea si visibilizza indirettamente come simbolo (il giglio bianco e l’idea di purezza)
  3. si determina completamente solo “all’infinito” (Ideale). Ovvero: sta all’infinito davanti al concetto – è la teoria delle tre idee trascendentali che si trova in Kant. Il focus è “imaginarius” perché è una sorta di immagine-guida.

Fin qui, mi pare, Deleuze è pienamente kantiano: la ragione (facoltà delle idee) ha la capacità, che manca all’intelletto, di pensare il “problema” sotto forma di un campo sistematico unitario che fa da guida senza poter essere chiuso, completato. Con un differente linguaggio: l’ideale-virtuale è la persistenza di un campo differenziale che rimane come sfondo di ogni attualizzazione.

La attualizzazione ha a che fare con la “drammatizzazione”. In che modo? Occorrerà fare riferimento al testo del 1967, “Il metodo della drammatizzazione” per cercare di capire.

Secondo tema: si trova alla fine del paragrafo e anticipa uno dei motivi fondamentali del capitolo, la critica allo schematismo. Vediamo i passi.

p. 222: “Kant, come ebbero a rimproverargli i postkantiani, si attiene al punto di vista del condizionamento senza raggiungere quello della genesi”.
Poche pagine più avanti, (p. 226) con riferimento a Maimon: Kant ha bisogno della mediazione dello schema che “ci lascia in un rapporto esterno tra il determinabile (lo spazio (…) ) e la determinazione (il concetto)” o, tra il dato e il pensato, tra il sensibile e l’intelletto.
E dunque “in Kant la differenza resta (…) esterna (…) sospesa all’esteriorità della costruzione, ‘tra’ l’intuizione determinabile e il concetto determinante” (corsivi miei). Maimon mostra l’insufficienza del punto di vista del condizionamento. “Condizionamento” significa mancanza di “determinazione reciproca”. Il condizionamento non è in grado di produrre la “sintesi reciproca dei rapporti differenziali”.
Ecco il nucleo della critica a Kant (e allo schema): p. 222: manca, o “non è ancora assegnato”, “l’orizzonte o il fuoco (…) in cui la differenza svolge la funzione di riunire in quanto differenza”.

Rimando: la nota di p. 282

Per capire meglio la questione dello schema, è utile fare un salto di parecchie pagine. Mi riferisco a una nota che compare nelle ultime pagine (nota di p. 282 e testo di p. 285). Qui c’è una importante affermazione a proposito di Kant: ci sono due luoghi in cui lo schematismo verrebbe superato. La questione vien posta così:

p. 282, nota: “La teoria kantiana dello schematismo si supera d’altronde in due direzioni: verso l’Idea dialettica che è di per sé il proprio schema e assicura la specificazione del concetto (Ragion pura, “Dello scopo finale della dialettica”); verso l’Idea estetica, che fa servire lo schema al processo più complesso e più comprensivo del simbolismo (Critica del giudizio, §§ 49 e 59)” (corsivi miei).

Alla p. 285, fine capitolo: L’idea dialettica = campo del virtuale. È determinata nella differen – t – iazione. Cioè: varietà dei rapporti differenziali e distribuzione delle singolarità. Ciò coincide con la definizione di Idea, ripetuta varie volte nel testo.
La differen-z-iazione invece riguarda il piano dell’attualizzazione, e questa è “estetica”. Questa è la conclusione della domanda di p. 277: “è opportuno chiedersi come avvenga l’attualizzazione nelle cose”.

Piano dialettico e piano estetico corrispondono grosso modo alla scansione virtuale/attuale. Bisogna tenere presente questa coppia.

Il saggio del 1963

“L’idea di genesi” (1963) e “Il metodo della drammatizzazione” (1967) costituiscono un significativo precedente. Il saggio del 1963 si riferisce al “secondo luogo” del superamento kantiano dello schema, mentre la conversazione del 1967 ha a che vedere con il primo.
Vediamo ora il secondo luogo kantiano, la Critica della capacità di giudizio. Come presenta Deleuze il superamento? Cerco di riassumere le argomentazioni del saggio del 1963 (traduzione italiana in L’isola deserta, Einaudi, 2007, pp. 67 sgg.).

Deleuze oppone il punto di vista del “condizionamento” secondo cui opererebbe lo schema, al punto di vista della genesi, che è all’opera nella KUK. Che significa la parola condizionamento in questo contesto? Ci sono “fatti” – i fenomeni – di cui si cercano le condizioni. Nella prima Critica questo ruolo è svolto dall’intelletto come facoltà dominante: l’intelletto governa il processo e ha il ruolo di legislatore (testo, p. 69).
Ma tra i fatti sensibili e le condizioni concettuali è necessario l’intervento di un elemento esterno mediatore, lo schema. Lo schema dunque resta esterno (testo, p. 74) e media tra elementi per natura eterogenei.
Nella KUK però l’immaginazione è liberata dalla legislazione dell’intelletto. L’intelletto non “condiziona” più l’immaginazione, e questa non schematizza ma “riflette” liberamente (p. 71).
Che cos’è allora il punto di vista della genesi? Genesi significa processo immanente: l’immaginazione liberata dalla tutela del concetto si trascende, va al limite (out of joint, è il tema deleuziano). Si spinge verso il fuori-di-sé o verso il Tutto. Non è più questione di concetti ma della prospettiva del tutto, ovvero delle Idee (p.75).
È la ragione che “pone l’immaginazione in presenza del suo limite” e questo limite si presenta o appare “nel sensibile” (p. 76). “Si eleva (grazie all’Idea) a un esercizio trascendente che prende per oggetto il proprio limite”.
L’immaginazione out of joint, per forza immanente propria, si fa comparire davanti “l’inaccessibilità dell’idea razionale” come “qualcosa di presente nella natura sensibile” – ma per via indiretta, cioè non concettualizzabile. Il visibile allora diventa occasione per “risvegliare” l’idea.
Non c’è più la forma (schema/concetto) ma una sorta di materia (è l’informe del Sublime). E nella materia del sensibile “la Ragione scorge altrettante presentazioni dell’Idea” (p. 79).
La dinamica non è più forma/concetto ma materia/idea. Nel primo caso serve lo schema come “arte nascosta”, nel secondo caso il rapporto si genera per analogia: “il giglio bianco” nello schema, sarebbe “rapportato ai concetti” – i concetti di colore o di fiore – mentre nel secondo caso produce un salto, o uno scarto verso l’eterogeneo, che “risveglia l’idea di pura innocenza” (p. 79).
L’oggetto del concetto è un dato, mentre l’oggetto dell’idea non è dato. Allora “il tema della presentazione delle Idee nella natura sensibile” si presenta con un “analogo riflessivo” del sensibile: il simbolo. Perciò, concluderà Deleuze cinque anni dopo, lo schematismo è “superato”.

Intermezzo. Il § 59 della terza Critica e la “Appendice alla dialettica trascendentale” (KRV)

Per provare a spiegare, torno alla definizione kantiana di ipotiposi che appare nel celebre paragrafo 59 della terza Critica (ed. Amoroso, pp. 541 sgg.). Va notato che c’è un fatto, che sembra in contrasto con la tesi deleuziana del “superamento dello schema”. Schema e simbolo sono due specie dello stesso genere che si chiama ipotiposi, ovvero esibizione o Versinnlichung, “resa sensibile”.

Sia il concetto che l’idea si sensibilizzano. Lo schema rende sensibile (visibile) il concetto: disegno lo schema del cane o del triangolo, dato il concetto ovvero i caratteri definitori: animale a quattro zampe, poligono in cui la somma degli angoli interni è 180° (lasciamo perdere la differenza tra concetto empirico e concetto puro). Si tratta di una regola per la produzione dell’immagine, secondo la precisa definizione dello stesso Deleuze.

[…] Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia (per la quale ci serviamo anche di intuizioni empiriche) in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intenzione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intenzione ad un oggetto del tutto diverso. È in tal modo che si rappresenta uno stato monarchico come un corpo animato, quando esso sia governato da leggi popolari sue, e invece come una semplice macchina (una specie di mulino a braccia), quando sia dominato da un’unica assoluta volontà; in tutti i due casi la rappresentazione è soltanto simbolica. Non c’è, è vero, alcuna somiglianza tra uno stato dispotico e un mulino a braccia; ma l’analogia sta tra le regole con le quali riflettiamo sulle due cose e la loro causalità (nella versione Chiodi p. 545, qui uso una differente traduzione).

Per inciso: la definizione kantiana di simbolo è profondamente diversa da quella che comparirà in Hegel: per Hegel c’è co-appartenenza, per Kant c’è dissomiglianza, eterogeneità.
Domanda: si può dire che lo schematismo è “superato” come fa Deleuze? O non si deve dire che schema e simbolo sono due specie parallele di Versinnlichung?

L’altro luogo dove avverrebbe il superamento dello schema si trova, secondo Deleuze, nella seconda parte della “Appendice alla dialettica trascendentale” (uso la trad. Chiodi pp. 524 sgg.) dal titolo “Intorno allo scopo ultimo della dialettica della ragione umana”. Perché qui Kant supererebbe lo schema? Vorrei concentrarmi su un differente uso della parola schema, connesso all’idea (e non al concetto), che appare in queste pagine kantiane.

Come si sensibilizza l’idea? L’idea è “il concetto di una cosa in generale” (Kant, “Appendice”) senza nessuna corrispondenza nel sensibile. Dunque devo esibirla ricorrendo a una figura, come dire, obliqua, non corrispondente. “Ipotiposi simbolica”. L’idea è un vagum, osserva qui Kant (trad. Chiodi, p. 531).
La dialettica, si può dire, è una malattia dell’idea: le idee diventano dialettiche a causa di un loro cattivo uso, a causa di una “parvenza ingannatrice”. Ovvero, quando si pretende (la ragione pretende) che funzionino come concetti, cioè che definiscano (costituiscano: uso costitutivo) oggetti dell’esperienza.
Il concetto (l’intelletto) è limitato (parcellare, osserverà Deleuze, gli manca la visione del Tutto), non può raggiungere l’Idea se non all’infinito, ce l’ha davanti come una guida e un orizzonte. Ma l’idea non può fare il lavoro del concetto perché non riguarda fenomeni ma solo “la cosa trascendentale” (Kant, p. 531) o la cosa in generale, senza riscontro fenomenico possibile.

In queste pagine Kant ricorre in modo abbastanza singolare alla parola schema. Quando noi parliamo di “una cosa” in generale, come oggetto problematico (vagum) dell’idea, allora “non si dà che uno schema” (pp. 524-525). Va notato il tono: la portata cognitiva dello schema insomma è ridotta, lo schema “serve esclusivamente a rappresentarci altri oggetti per via indiretta” (corsivo mio). E ancora, poco più avanti: la cosa trascendentale, insomma la cosa “in sé” è “solo lo schema del principio regolativo” (p. 531). Non c’è, non “esiste” in senso proprio un in-sé al di fuori della rete dei concetti che ci permetterebbe di conoscerla.
Allora che cosa ce ne facciamo? La spiegazione di Kant pare essere questa: prima di tutto, è la proiezione di un bisogno della nostra natura razionale; inoltre, serve da orizzonte alla ricerca, noi ci comportiamo “come se”, ma essa ha valore solo perché sta in relazione con i nostri concetti, li estende, allarga l’orizzonte. E infine, ha una sua forma di visibilità. Come schema, appunto.
L’esempio-chiave di Kant è quello dell’idea di “un’intelligenza suprema”, la terza delle Idee trascendentali. È un concetto, ma un concetto euristico: “non si dà che uno schema”, niente di reale ma “una semplice idea”.
Lo schema-come-idea, o l’idea-schema, non è lo schema del concetto di una cosa esistente determinata ma solo “di una cosa in generale”. Poco oltre: “lo schema è offerto dall’idea” (p. 527). Insomma l’idea non ha un “in-sé”, “manca il concetto di ciò che sia in se stessa” (p. 530).

Allora lo schema è superato? Certo è vero, nei termini di Deleuze, che l’idea dà a se stessa il proprio schema, anzi vi si identifica. Forse si può dire: è vero che il carattere-di-schema ora, diversamente che nello schematismo dei concetti, è interno all’idea (in questo senso Deleuze ha ragione) ma perché il suo ruolo è cambiato, da costitutivo a regolativo. Ovvero, l’idea-come-schema ha un uso diverso dallo schema dei concetti dell’intelletto. Va notato che Kant, parlando qui sia dell’idea che dello schema, usa un termine riduttivo: è solo uno schema, è solo un’idea. Non è reale. Per Deleuze invece è reale – anche se non attuale.
Un’unica entità lessicale – la parola schema – per così dire si sdoppia in Kant a seconda che il suo riferimento sia all’idea o al concetto.

SCHEMA:

°

Come idea: indica un orizzonte regolativo per la ricerca, cioè orienta il pensiero verso la ricerca dell’unità servendosi di una figura analoga. Ipotiposi simbolica: il giglio risveglia l’idea-di-purezza

°

In rapporto al concetto: regola di produzione dell’immagine sulla base del concetto

 

La conversazione sulla drammatizzazione del 1967

Da Kant a Deleuze, questo mi pare importante, cambia l’idea di dialettica. In Kant: una presunzione indebita della ragione, quando la ragione usa l’idea come se fosse un concetto. In Deleuze: un carattere differenziale intrinseco dell’Idea.
Però questo rapporto di appartenenza allo stesso genere – l’ipotiposi – costringe Deleuze ad ammettere che il dramma assomiglia allo schema (“Il metodo della drammatizzazione”, p. 122) e dunque a cercare di spiegare dove stia la differenza.
Semplificando si potrebbe dire: il dramma è interno all’idea mentre lo schema è esterno al concetto. L’idea, per Kant, non è un in-sé, come si è visto, mentre per Deleuze le Idee sono degli in-sé reali composti da una molteplicità di relazioni (come per Platone).
Il problema del passaggio dal piano reale-ideale al piano attuale-reale va risolto in altro modo e la sua formula grafica è quella della differen t/z iazione. Kant è realista, Deleuze, come Platone, è a modo suo idealista. Questo spiega l’obiezione di Zizek che afferma che nel pensiero deleuziano ci sono due componenti, quella idealista che si trova in DR (in particolare proprio in questo capitolo) e quella materialista che si trova in Logica del senso (Zikek, tr. it. 2016, pp. 458-460).

La nozione di drammatizzazione in DR si trova verso la fine del capitolo quarto, nel paragrafo che risponde alla domanda su come avviene l’attualizzazione dell’Idea nelle cose. Pp. 281-282: “la drammatizzazione incarna i due tratti dell’idea”. La definizione di drammatizzazione nel 1967 è la seguente: sono dei dinamismi, delle determinazioni spazio-temporali dinamiche, pre-qualitative e pre-estensive.
E i dinamismi non sono schemi di concetti – dinamica esterna – ma drammi di idee: dinamica interna. Il dinamismo “incarna immediatamente i rapporti differenziai”. I rapporti differenziali e i punti singolari (piano del reale-virtuale” SI INCARNANO in specie e parti. È a questo punto che si ripresenta la critica allo schema kantiano con la nota di cui si è parlato sopra.
Qualche pagina più avanti (p. 285): “l’elemento potenziale dell’idea “- dove la parola potenziale equivale alla parola virtuale – si definisce dialettico. E da che cosa viene attuato? Dalla componente estetica: specie e parti sono elementi del piano sensibile. La drammatizzazione definirebbe l’intero processo. Ma non si può parlare di drammatizzazione se non si fanno i conti con lo schema e con Kant – come prometteva appunto l’inizio del capitolo da cui sono partito.

Il precedente più prossimo di questo paragrafo è in una conferenza di due anni prima, presso la Società francese di filosofia. L’uditorio è estremamente qualificato, ne fanno parte tra gli altri Wahl, Alquié, Beaufret, Philonenko, Gandillac (che sarà il suo relatore alla tesi di dottorato). È significativo un certo sconcerto che le posizioni deleuziane producono nei suoi interlocutori e che emerge con chiarezza dal dibattito dopo la breve esposizione (alle pp. 127 sgg. della traduzione italiana). È in questo testo che a mio parere il tratto idealista di Deleuze appare con estrema chiarezza.

In prima battuta si può dire: l’idea si drammatizza come il concetto si schematizza. Deleuze ammette appunto che il dramma “somiglia” allo schema. Allora quale è la differenza?
Ritorniamo sulla definizione di drammatizzazione, che appare nelle discussione successiva alla breve presentazione da parte dell’autore, e che ripete una definizione data all’inizio (p. 116):

Cerco di definire la drammatizzazione in modo più rigoroso: sono dei dinamismi, della determinazioni spazio-temporali dinamiche, pre-qualitative e pre-estensive, che hanno ‘luogo’ in sistemi intensivi in cui si suddividono delle differenze di profondità, che hanno per ‘pazienti’ dei soggetti-abbozzi e la ‘funzione’ di attualizzare le idee (p. 134)

Nel complesso la drammatizzazione risponde appunto alla domanda che Deleuze si pone in DR: “è opportuno chiedersi (…) come avvenga l’attualizzazione nelle cose” (capitolo IV, p. 277).
Dato un concetto, osserva nel 1967, “non sappiamo ancora niente”, dobbiamo scoprire “l’Idea che opera sotto questo concetto” (p. 127). Il “che cosa” è (x) non ci basta, dobbiamo rispondere alle domande modali, come, quando, in quale circostanza. Il complesso di queste domande è il procedimento che si chiama vice-dizione.
Tra i vari esempi che si trovano qui (l’isola, la linea retta) il più interessante e chiaro a mio avviso riguarda il concetto di verità. Qui Deleuze è foucaultiano-nietzscheano: non ci basta chiederci che cos’è la verità, dobbiamo chiederci “chi vuole il vero, quando e dove, come e quanto” (p. 122). Quando chiedo che cos’è (x) presuppongo invece un’essenza dietro le apparenze, “qualcosa di ultimo” (p. 142). Qui sembra implicito che drammatizzare equivale a genealogizzare.

La drammatizzazione a quanto pare riguarda questo: è un metodo, cioè una via per cercare. Che cosa? Il dramma sotto il concetto. Eppure bisogna ammettere: il dramma somiglia allo schema, che fa corrispondere – al concetto – determinazioni spazio-temporali. Come in Kant (p. 122). Allora dove sta la differenza? Ritorna la domanda dei neo-o post-kantiani: da dove viene il potere misterioso che lo schema possiede in rapporto al concetto? Le determinazioni spazio-temporali “drammatizzano un concetto”. “Alcuni postkantiani” rispondono: “i dinamismi spazio-temporali puri hanno il potere di drammatizzare i concetti (…) perché essi attualizzano o incarnano delle Idee” (ivi).

Provo a sintetizzare il percorso.

La drammatizzazione “attualizza” o “esprime” l’Idea in “dinamismi spazio-temporali” (p. 116)
La rappresentazione concettuale/grafica della dinamica della drammatizzazione è un “concetto complesso” reso dalla formula t/z (p. 117) dove la lettera (t) (drammatizzaTione) indica la presenza di un insieme di “rapporti differenziali” e di “distribuzioni di singolarità corrispondenti” (p. 123: è la definizione di Idea).
L’idea contiene sul piano del virtuale o piano dell’ “in-sé” queste due parti, chiamate “rapporti” e “singolarità”.
Ma siamo sempre sul piano del virtuale-ideale: tutti i rapporti differenziali e le ripartizioni di singolarità “coesistono nella molteplicità virtuale dell’Idea” (p. 123). La realtà-del-virtuale è composta di rapporti differenziali e distribuzione di singolarità.
L’Idea “si attualizza” quando le due metà dell’idea – rapporti differenziali e singolarità – “si incarnano” in specie e parti. Ma i dinamismi spazio-temporali sono ancora dentro il virtuale, non sono ancora attualizzati, anche se “spingono le idee ad attualizzarsi” (pp. 126-127). In altri termini si potrebbe dire (alla Leibniz?) la potenza preme verso l’atto.

L’Idea è differenziata in sé prima di differenziarsi nell’attuale: cioè è (t) prima di essere (z), e continua a esserci una componente virtuale anche quando il processo di attualizzazione si realizza: così “sembra che ogni cosa abbia due metà” asimmetriche, una ideale, una attuale (di qui il prossimo capitolo: nel sensibile avviene una sintesi “asimmetrica”). In (t) ovvero sul piano virtuale, ci sono spazio e tempo ma ideali, astratti: uno “spatium inesteso” (p. 119) “eventi ideali”.
Il tempo e lo spazio hanno due aspetti, uno virtuale (nel reale dell’Idea) l’altro attuale (p. 127). La differenziazione esprime entrambi gli aspetti. Allora quando Deleuze afferma che “tutte queste condizioni definiscono la drammatizzazione” (p. 126-27) che cosa vuol dire?
Che cosa “fa”, la drammatizzazione? E perché è così importante? In che modo “supera” il concetto e lo schema?

  • La drammatizzazione è un “metodo” per cercare l’idea alle spalle del concetto, cioè la sua genesi. Ma anche propone un percorso genetico dall’idea al fenomeno
  • Lo fa cambiando la domanda da ontologica (che cosa è x) a modale: in quale circostanza si presenta la figura attuale di (x)
  • Individua il rapporto tra il piano virtuale (t) e il piano attuale (z) entrambi reali
  • Il fenomeno è visto come il corrispondente attualizzato dell’idea nell’estensione e nelle parti
  • Al posto di avere due parti eterogenee (fenomeno e concetto) con la mediazione esterna dello schema, c’è una “cosa” con due aspetti “asimmetrici” (uno ideale, l’altro attuale)

Per questo la drammatizzazione sembra la risposta (neokantiana o postkantiana) all’enigma dello schema. Ma è anche una risposta in chiave idealistica: le idee sono, effettivamente, reali mentre per Kant un’idea “è solo un’idea” come si è visto. Prevale, se vogliamo dir così, la componente platonica.
Nello stesso tempo, “la cosa” continua a contenere il virtuale da cui proviene. A me questo pare un punto di vista aristotelico (Aristotele, Met. 1047 a; vedi Agamben: 2005, p. 292): anche quando la potenza si attua, resta una sorta di potenza in riserva, inesauribile. Si potrebbe dire: la potenza non si esaurisce nell’atto come il virtuale non si esaurisce nell’attualizzazione.

E quando Deleuze afferma che le idee sono dei potenziali sempre impegnati in specifici modi di espressione, alla parola “potenziali” possiamo sostituire la parola “virtuali”, mentre “modi di espressione” vale per “modi di attualizzazione”. Così, le idee sono dei virtuali (delle molteplicità virtuali) sempre impegnati in specifici modi di attualizzazione. Ciò che noi vediamo, delle idee, sono i modi – il come, il quando, il quanto. Da questi possiamo risalire alle idee. Ma il potenziale non si esaurisce nei modi. Così ogni cosa ha sempre due parti asimmetriche. 

Le idee sono molteplicità. Vanno percorse non dal basso in alto ma per così dire in orizzontale (vice-dizione: a che cosa si avvicina? Con che cosa risuona?). prendiamo il Filebo che rappresenta bene, credo, questo Platone dell’“ultima dialettica” di cui parla Deleuze quando si definisce platonico (“Il metodo”… p.144). Come sappiamo, il tema ufficiale del dialogo riguarda la questione del piacere – se il piacere sia il Bene. In realtà il punto è arrivare all’Idea del Bene. Ora, nel finale (64 E sgg.) troviamo due importanti osservazioni. La prima: “la potenza del Bene (dynamis) si è rifugiata nella natura (physin) del Bello”. Kant riprenderà nel paragrafo 59 della terza Critica: “il Bello è il simbolo del Bene morale”. Una specie del genere ipotiposi o esibizione nel sensibile. Schema e simbolo sono entrambi ipotiposi, spiegherà Kant. Modi di rendere visibile.
Poco oltre, nel Filebo Socrate constata anche che “non possiamo cogliere il Bene in una sola Idea”, anzi abbiamo bisogno di tre idee, Bellezza, Proporzione (symmetria) e verità (aletheia) (tr. it. p. 227). Ci troviamo così dalle parti del Bene, anzi “nel vestibolo”, conclude Socrate.
Ora, sono possibili due letture di questa posizione. La prima porta a pensare alla trascendenza del Bene, che non è direttamente pensabile e ci si può solo avvicinare (il vestibolo). Nella seconda lettura possibile, il Bene è indicato piuttosto come il punto focale di una rete relazionale. Si tratta di “individuare le relazioni dell’idea cercata con le altre idee affini, che formano una sorta di rete”. La discussione dialettica, quella di cui parla la settima Lettera, arriva allora fino al “portico antistante”, mentre a sua volta l’idea sarebbe, come ha osservato Mario Vegetti, “il nodo o l’intreccio relazionale” (Vegetti, 2003, pp. 161 e 162). E non è questo, appunto, ciò che Deleuze chiama vice-dizione? Verrebbe voglia di dire, con una battuta, che la vice-dizione è una sorta di procedimento metonimico del pensiero, muove il pensiero per contiguità.

Alcune domande:

  • Il dramma è il nome deleuziano per l’ipotiposi simbolica? In altre parole: la nozione di analogia nella KUK e la nozione di idea-schema nella KRV possono essere intese entrambe come corrispondenti all’esito del processo di “drammatizzazione”? o ancora: la drammatizzazione è una genesi?
  • Si può dire che il dramma è lo schema dell’idea? Ovvero, che sta all’idea come lo schema sta al concetto? O invece: la drammatizzazione supera lo schema?
  • Si può obiettare che in Kant, piuttosto che un superamento dello schema come scrive Deleuze, ci sia piuttosto lo sviluppo di un piano parallelo (nella “Appendice” alla Dialettica trascendentale) che si chiama “idea-schema” ?
  • In altri termini: si può dire che lo schematismo è “superato” come fa Deleuze? O non si deve dire che schema e simbolo sono due specie parallele di Versinnlichung?

 

BIBLIOGRAFIA

  • Agamben, G., 2005 (1987) “La potenza del pensiero”, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, pp. 281-296
  • Deleuze, G., 1963, tr. it. 2007, “L’idea di genesi nell’estetica di Kant”, in L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, a cura di D. Borca, Introduzione di P.A. Rovatti, Torino, Einaudi, pp. 67-87
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