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More than Meth

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Viviana Faschi

More than Meth

More than this

Sarebbe stato apparentemente più calzante, per citare il titolo di una canzone, usare come sottotitolo di questo articolo More than words, il brano pop acustico del gruppo ahimè caduto nell’oblio Extreme, così magari da entrare in medias res nella clinica del significante di Jacques Lacan, laddove ciò che vi è di più delle parole è quello che cade – ovvero è già da sempre caduto – per forza nell’inconscio, a sua volta, e proprio per questo, strutturato come un linguaggio.

Solo che qui non siamo (più) dentro la clinica del significante bensì in quella del godimento. Se si resta nella clinica del significante si può infatti affermare che c’è più che parola con cui fare i conti, sebbene tutto si veicoli attraverso essa; se si approda alla clinica del godimento ci deve invece necessariamente essere più di questo: questo si vuole sempre di più, infatti se Bryan Ferry cantava there’s nothing more than this allo stesso tempo rilanciava con tell me one thing more than this.

More than meth: faces of drug arrests è una campagna promossa nel 2012 dal sito rehabs.com per mostrare, attraverso successioni di foto segnaletiche di persone arrestate per uso e possesso di sostanze stupefacenti illegali, nonché armamentari per la loro fabbricazione (paraphernalia), come cambino non solo le espressioni ma anche i tratti somatici del volto delle persone, dopo mesi o anni trascorsi nell’utilizzo delle medesime sostanze.

Al di là degli innegabili segni evidenti che, più di ogni altra droga del ventunesimo secolo, le metanfetamine tracciano sui volti (e sui corpi) di chi ne abusa, segni che hanno dato origine anche a idiomi, ad esempio la meth mouth, la bocca di colui che ne assume abitualmente, caratterizzata da deterioramento e perdita dei denti, la caratteristica di questi volti va cercata innanzi tutto in una sorta di “resa”. Resa da che cosa ci si chiederebbe.

Cosa apporta in più questo dossier fotografico rispetto alle miriadi di articoli, saggi, volumi, trasmissioni televisive e conferenze che vengono ripetutamente diffuse sul tema della dipendenza da sostanze stupefacenti?

Evidentemente proprio il fatto che qui non c’è molto da dire, il reportage non mostra che poche essenzialissime parole: nome ed età del soggetto, motivo dell’arresto. Qui, infatti, non siamo più nella logica del significante, le parole non sono atte a dire tutto, c’è ben più di questo.

Parlavamo di resa, ma di che resa si tratta? Resa come desiderio mortifero oppure come godimento mortifero? Un godimento se gli si arrende è sempre mortifero perché non avrebbe limite.

Ma ne siamo proprio sicuri? Siamo sicuri che la deriva del godimento procederebbe in una traiettoria dalla rettitudine infinita? Non è un po’ astratto e teorico vederla così? La prassi delle cose ci insegna altro, ci insegna, ad esempio, che nel processo che fece allontanare i continenti (la loro deriva, appunto) gli uni dagli altri, essi, trovandosi su di una superficie sferica (ma che l’uomo per lunghissimo tempo ha ritenuto piatta), avrebbero finito per cozzare tra loro come accadde all’India che impattò con l’Asia formando con quello scontro la catena dell’Himalaya, e deve essere stato uno scontro non da poco se ha dato origine al massiccio più elevato del pianeta.

Forse quello di cui stiamo parlando potrebbe essere un godimento strutturato allo stesso modo, un godimento che lasciato andare alla deriva prima o poi impatta contro qualcosa.

E se questo qualcosa fossero le spoglie, il resto del desiderio? Qualcosa del desiderio che è “caduto”, precipitato a livello del godimento e da lì, dal “basso” continuerebbe la sua dinamica del rilancio annodandosi con quella della coazione a ripetere tipica del godimento: «continuo nella mia ripetizione sempre un po’ più in là», un po’ oltre, fino a impattare con qualcosa, cosa? Col desiderio di morte. Il desiderio di morte, occorre precisarlo, è cosa diversa dal desiderio mortifero.

Il desiderio di morte è il retaggio, l’eredità storica, della massima “Il desiderio è portato dalla morte”, presente nello scritto di Lacan La direzione della cura; è la cavità incolmabile, il vuoto lasciato dalla stella quando il cielo si fa azzurro, dal momento che il soggetto umano ha scelto la via del linguaggio rispetto a quella del muto bisogno.

Così il tu devi godere imposto dalla società dei consumi, che impone il godimento mascherandolo da desiderio (e riuscendoci benissimo in effetti poiché il consumo è per sua definizione metonimico, non si abbasta mai), lasciato andare alla deriva diventa il tu devi morire della società degli abusi, che di sicuro non riguarda solo le droghe, men che meno solo le metanfetamine.

Quella che stiamo denominando società degli abusi riguarda anche e soprattutto il grandioso complesso delle fabbriche di adrenalina: i soggetti ormai abituati o godere, devono godere sempre più e sempre più intensamente, così nascono i parchi divertimento dove divertirsi vuol dire provare sensazioni forti, ma così forti che devono simulare quello che accadrebbe in situazioni di prossimità alla morte. Solo che non si muore. La domanda sarebbe, a questo punto, fino a quando per questi soggetti diventa sopportabile il “solo che non si muore”, perché volendo (dovendo) sentire sempre di più, il raggiungimento di un punto di impatto diventa pressoché necessario.

Nel dossier More than meth non abbiamo ovviamente una teoria comprovata di questa deriva, bensì solo prove, nelle foto segnaletiche con i volti catturati nel corso del tempo, di soggetti impastati con tali dinamiche corrosive. Soggetti per i quali la frase che scrive Lacan in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano: “Il desiderio è una difesa, difesa dall’oltrepassare un limite nel godimento” potrebbe non avere più valore. Perché qui un limite è già stato sorpassato e ciò che il soggetto, il corpo dilaniato del soggetto, chiede è solo di potersi impattare con qualcosa che metta un freno al suo godimento divenuto metonimico, divenuto desiderio di morte. Il desiderio è portato dalla morte e alla morte vuole tornare.